venerdì 4 gennaio 2013

Acqua


Ero sotto una doccia calda ma che dava getti d’acqua a tratti. Mentre cercavo di beccare la direzione giusta, mi dimenavo e pensavo. Affollata non è mai una buona cosa. Se una discoteca è affollata non lascia spazio a chi intende ballare, se una spiaggia è affollata perde la metà del suo fascino. Anche perché affollata non vuol dire necessariamente piena. La pienezza è un concetto tondo, preciso e senza crepe . . . l’affollamento è spigoloso, storto e insoddisfacente. Tra il vapore delle docce, il caldo del phon e tante donne che si preparavano per chissà chi, un accappatoio grigio ha dato la voce che serviva ai miei pensieri. Stavo tornando indietro, ripercorrendo strade già battute cercandovi disperatamente qualcosa di buono, una storia da redimere. Capii in quel momento che se c’era una cosa che stavo cercando era solo una scappatoia. Un’uscita di sicurezza, con una porta rossa che si apre senza fare rumore era quello che volevo e intanto mi ritrovavo in stradine contorte di spiegazioni da dare e persone da interpretare. Mi chiedevo se fosse l’ironia del destino o una mia strana perversione imbattermi in strade così diverse da quella da cui fuggivo, in cui non occorrevano spiegazioni, in cui non c’erano giochi, in cui capirsi era la regola. Mi domandavo dove avrebbero potuto condurre queste strade secondarie e quanto avessero a che fare con me, che nelle cose contorte mi sono sempre persa. Ero quasi asciutta, ma sono tornata alla doccia. Ho scelto la temperatura più fredda possibile. Ora scorreva bene, gelida ma senza strappi improvvisi. Meglio, decisamente meglio. 

lunedì 5 novembre 2012

Scommettiamo?


Il PIL cala e lo spread cresce. Per ricucire tutti i tagli in corso servirebbe l’intera squadra di Armani, compreso patron Giorgio. E mentre l’ISTAT sforna dati sulla crisi e sulla disoccupazione record, nessuno sembra preoccuparsi del terribile crollo delle quotazioni della fiducia. Siamo diventati cittadini disillusi, che non credono più di poter cambiare il proprio paese, siamo giovani spaventati che della fiducia nel futuro hanno soltanto sentito vagamente parlare. E così tra i banchi universitari, anziché ubriacarsi d’ideali e libertà, ci si domanda a vicenda: “ Ma cosa credi che farai?” e si gareggia a chi sarà più sfortunato, represso e indebitato in un prossimo futuro. Degli uomini non ci si fida più, perché, si sa, in tempi di guerra tutti sono potenziali nemici; e allora guai a confidarsi perché si potrebbe rivelare involontariamente al nemico il piccolo buco di salvezza troppo stretto anche per uno. Ridotti a ombra di noi stessi e svuotati di ogni sogno, tolleriamo anche le autorevoli parole di chi ci invita a non essere troppo schizzinosi o chi ci definisce imbelli bamboccioni. Ma esiste un denominatore comune alla nostra, personale,crisi:siamo privi di  fiducia. La fiducia di creare rapporti veri e di affidarsi totalmente all’altro, la fiducia in un futuro che per quanto costellato di sacrifici possa un giorno realizzarsi, quella fiducia che non è negazione o cieco ottimismo ma consapevolezza della difficoltà di una vita che però prima o poi conclude. Il presidente americano Obama in un suo discorso ha profeticamente asserito “Il nostro destino non è scritto per noi, ma da noi”. Certo sono parole azzardate per un mondo che nel suo destino vede l’apocalisse finanziaria. Dire che il destino è una questione di scelta e non di opportunità vuol dire invitare ad avere fiducia in se stessi, nei propri obiettivi e nelle proprie capacità. E per tradurre all’italiana un concetto che è tanto americano io parlo di scommesse. Immaginiamo di aver scommesso sul nostro futuro; in attesa del risultato possiamo ubriacarci al bar in preda alla disperazione, o possiamo uscire e industriarci affinché la nostra scommessa non rischi di farci affondare. Questa è la differenza tra aver fiducia o no, tra crederci e lottare, o esser disillusi e lasciar crollare tutto. 

domenica 7 ottobre 2012


ore 12.
Dovrei essere in grado di scrivere cos'è che esattamente voglio sapere. Ora che ci penso non riesco a formulare domande precise.  Ho piuttosto vaghi e confusi pensieri. Vorrei sapere a cosa pensi quando smetti di parlare e fissi il vuoto, vorrei capire la chiave del mistero che mi permette di capire ogni tua storia e ogni tua reazione, tranne quando si tratta di me. Vorrei che la nostra interminabile partita potesse risolversi. Siamo seduti da mesi allo stesso tavolo, ci curiamo di tenere le carte al sicuro e di tanto in tanto, con prudenza, ne giochiamo una. Ci guardiamo e cerchiamo di intuire la prossima mossa, riflettiamo e mentre siamo sul punto di rischiare tutto, tratteniamo cautamente quella carta. Troppo rischioso. Io invece vorrei che scoprissimo tutte le carte sul tavolo, fosse anche un due di picche. Che poi a giocare a carte non sono mai stata così brava. Vorrei sapere se essere animi affini, scrivere allo stesso modo, credere alle stesse assurde cose è un privilegio o piuttosto una condanna. Vorrei capire se esiste davvero quella sensazione di sicurezza totale quando siamo certi di capirci l’un l’altro o è frutto di auto-suggestioni romantiche. Mi ero ripromessa di guardare ai fatti, di fidarmi soltanto di ciò che era chiaro e fissato e invece mi ritrovo qui a tessere illusioni su impressioni e ancora ad accenni e sensazioni. D’altra parte si possono rinnegare persone e situazioni, ma è dura reprimere la propria natura. Siamo due rari ottimisti, cerchiamo l’amore vero per cui valga la pena rinunciare a tutto il resto, confidiamo nel fatto che esista e cerchiamo di rendere amore anche ciò che non lo è. Ed ecco che indossi i comodi panni di una scelta sicura, mentre io rivivo il fantasma di dubbi e incertezze. Non tollero le situazioni in sospeso; inciampo spesso ed ho un pessimo equilibrio sulla terra ferma. Immagina quanto sia terribile per me restare in bilico su questo filo sottile. Vorrei stabilire dov'è che finisce il gioco e dove comincia qualcosa in più. Forse vorrei soltanto sapere se questa partita la sto portando avanti da sola o se ancora ci sei di fronte a me per giocare la tua carta . . .

ore 3.
Avevo tanto voglia di vedere la tua carta. Eccola lì, uno sgargiante asso di cuori per quella ragazza che all'improvviso mi sembra così vera. E’ tutto il resto che non mi sembra più vero.

domenica 23 settembre 2012

Nazione e informazione




L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. Le sacrosante parole dell’articolo uno di una Costituzione che paradossalmente risveglia moti patriottici e sopiti istinti nazionalistici. E siccome l’avveniristica teoria del vecchio Montesquieu sulla separazione dei poteri è costantemente ribadita e strenuamente difesa, risulta piuttosto singolare notare come il quarto potere risulti non solo imbavagliato, ma anche oppresso e sfruttato. Altro che Terzo Stato. La vitale necessità dell’informazione, che per una nazione è linfa vitale, sembra valere meno di tre euro a chi le notizie le cerca, le indaga e le racconta. Il lavoro del giornalista diviene collaborazione a titolo gratuito in un’Italia in crisi totale in cui anche nobili ideali di libertà di espressione e meritocrazia per una professione tanto complessa sono in recessione. E mentre ci si indigna con una società indifferente,si rivendicano a gran voce diritti negati, il titolo di giornalista diviene sinonimo di precario frustrato. I problemi sono molteplici, a partire dal convulso accesso alla professione per “terminare” con l’agognante ricerca di un’opportunità di lavoro che non sia sfruttamento schiavista da far rabbrividire i sudisti del ‘700. Il mondo mediatico che sforna a ritmi impressionanti notizie e bufale, rincorre affannosamente la modernità lasciando nell’incuria totale una classe di lavoratori che crede innanzitutto nel potere della notizia.  In una manifestazione in cui giovani speranzosi incassano il duro colpo di aver scelto una strada complessa, in cui si scontrano ingenui sogni di ventenni e le acri parole dell’esperienza, la summa morale sembra essere un invito alla più strenua determinazione. E poiché qualcuno ha detto che fare il giornalista è sempre meglio che lavorare, mi delego la licenza poetica (con tutto l’ossequio per la veneranda costituzione) di dire che “La Repubblica Italiana è fondata sul lavoro, chi ne racconta le storie svolge un lavoro.” 

Una sopravvissuta al Festival del Giornalismo Giovane

mercoledì 12 settembre 2012

Amore e caffè



In una calda mattinata delle vacanze estive mi ritrovai a pensare alle relazioni.A quelle storie d’amore infinite che sembrano perfette e che nascondono scheletri nell'armadio. A quelle storie che non riescono a trovare una degna fine e tornano sempre a riscrivere gli stessi capitoli, chissà se per troppo amore o stanca abitudine. Ripensai alle storie consumate sotto la luna e trascinate notte dopo notte per anni interi; a quegli amori impossibili che sfidano ogni logica e realtà e mi resi improvvisamente conto che c’era una spiegazione all'assurda catena che lega amore e dolore. Il vero amore dura il tempo di uno sguardo. L’attimo in cui due paia di occhi si cercano e si dicono qualcosa. Tutto il resto è solo speranza disattesa,illusione, passione e incomprensione. Allora perché non ci accontentiamo degli sguardi, così sinceri e diretti? Perché cerchiamo sempre parole che possono essere bugiarde, mani che possono essere egoiste, momenti che, si sa, andranno presto via? La verità è che per quanto possa essere vero uno sguardo non riempie che un secondo, il pensiero o il ricordo di un amore invece colma intere giornate. L’amore è come il caffè: si sa che quello amaro è più autentico, ma lo zuccheriamo a volontà finché non è di nostro gradimento. E una volta finito, c’è chi con il cucchiaino raccoglie lo zucchero sul fondo! 


Non scrivevo da un po’ e confesso che avere un foglio bianco dinanzi agli occhi fa paura. Fa paura come tutto ciò che ancora non conosciamo,che è vuoto ed attende di essere colmato. In fondo è l’ignoto che genera ansia, l’attimo prima che accada qualcosa, l’istante che precede una decisione. Dopo quell'attimo, è tutto stabilito e scontiamo le conseguenze di un briciolo di coraggio o di un mare di viltà. E’ un punto oscuro. Alla base di ogni aspetto della vita esiste un punto oscuro; l’estrema incertezza dell’azione, il terrore cieco di una scelta, la paura di vivere l’amore. L’instabilità  sembra sfidarci continuamente, e ci affanniamo per trovare un posto che crediamo stabile, un ruolo che vogliamo fisso, illudendoci che possa esserci qualcosa di fermo in una realtà che ruota ogni giorno. L’unica sicurezza che ostentiamo orgogliosi è il nostro ego, i difetti divengono bandiera e il carattere uno scudo di difesa. Ma per quanto si costruiscano solide dimore ed efficaci messe in scena, il bisogno di certezze ci ossessiona fino a soffocarci. Il tempo,foriero di buoni consigli, mi ha insegnato a credere alle boccate d’aria fresca, alle ventate gelide e al tremendo scirocco piuttosto che all'aria stantia di abitudini e remore. Ho imparato che la dignità non va mai dimenticata, e che l’orgoglio è solo una scusante per la villania; che l’insicurezza è l’impalcatura del coraggio e non ha senso celarla. Ho imparato che per conoscere davvero una persona bisogna per un attimo dimenticarsi di sé , che tanto ci si sopporta per una vita intera. Ho capito che una nuova era è l’occasione per rivoluzionare tutto e rimanere fedele a tutto. Ho capito come un foglio bianco può in un attimo riempirsi di deliranti parole e che il silenzio può non essere assordante se ci si parla su. . .