Ero sotto una doccia calda ma che dava getti d’acqua a tratti.
Mentre cercavo di beccare la direzione giusta, mi dimenavo e pensavo. Affollata
non è mai una buona cosa. Se una discoteca è affollata non lascia spazio a chi
intende ballare, se una spiaggia è affollata perde la metà del suo fascino.
Anche perché affollata non vuol dire necessariamente piena. La pienezza è un
concetto tondo, preciso e senza crepe . . . l’affollamento è spigoloso, storto
e insoddisfacente. Tra il vapore delle docce, il caldo del phon e tante donne
che si preparavano per chissà chi, un accappatoio grigio ha dato la voce che
serviva ai miei pensieri. Stavo tornando indietro, ripercorrendo strade già
battute cercandovi disperatamente qualcosa di buono, una storia da redimere. Capii
in quel momento che se c’era una cosa che stavo cercando era solo una
scappatoia. Un’uscita di sicurezza, con una porta rossa che si apre senza fare
rumore era quello che volevo e intanto mi ritrovavo in stradine contorte di
spiegazioni da dare e persone da interpretare. Mi chiedevo se fosse l’ironia
del destino o una mia strana perversione imbattermi in strade così diverse da
quella da cui fuggivo, in cui non occorrevano spiegazioni, in cui non c’erano
giochi, in cui capirsi era la regola. Mi domandavo dove avrebbero potuto
condurre queste strade secondarie e quanto avessero a che fare con me, che
nelle cose contorte mi sono sempre persa. Ero quasi asciutta, ma sono tornata
alla doccia. Ho scelto la temperatura più fredda possibile. Ora scorreva bene,
gelida ma senza strappi improvvisi. Meglio, decisamente meglio.
Nero di seppia
venerdì 4 gennaio 2013
lunedì 5 novembre 2012
Scommettiamo?
Il PIL cala e lo spread cresce. Per ricucire tutti i tagli in
corso servirebbe l’intera squadra di Armani, compreso patron Giorgio. E mentre
l’ISTAT sforna dati sulla crisi e sulla disoccupazione record, nessuno sembra
preoccuparsi del terribile crollo delle quotazioni della fiducia. Siamo
diventati cittadini disillusi, che non credono più di poter cambiare il proprio
paese, siamo giovani spaventati che della fiducia nel futuro hanno soltanto
sentito vagamente parlare. E così tra i banchi universitari, anziché ubriacarsi
d’ideali e libertà, ci si domanda a vicenda: “ Ma cosa credi che farai?” e si
gareggia a chi sarà più sfortunato, represso e indebitato in un prossimo futuro.
Degli uomini non ci si fida più, perché, si sa, in tempi di guerra tutti sono
potenziali nemici; e allora guai a confidarsi perché si potrebbe rivelare
involontariamente al nemico il piccolo buco di salvezza troppo stretto anche
per uno. Ridotti a ombra di noi stessi e svuotati di ogni sogno, tolleriamo
anche le autorevoli parole di chi ci invita a non essere troppo schizzinosi o
chi ci definisce imbelli bamboccioni. Ma esiste un denominatore comune alla
nostra, personale,crisi:siamo privi di fiducia. La fiducia di creare rapporti veri e
di affidarsi totalmente all’altro, la fiducia in un futuro che per quanto
costellato di sacrifici possa un giorno realizzarsi, quella fiducia che non è
negazione o cieco ottimismo ma consapevolezza della difficoltà di una vita che
però prima o poi conclude. Il presidente americano Obama in un suo discorso ha
profeticamente asserito “Il nostro destino non è scritto per noi, ma da noi”.
Certo sono parole azzardate per un mondo che nel suo destino vede l’apocalisse
finanziaria. Dire che il destino è una questione di scelta e non di opportunità
vuol dire invitare ad avere fiducia in se stessi, nei propri obiettivi e nelle
proprie capacità. E per tradurre all’italiana un concetto che è tanto americano
io parlo di scommesse. Immaginiamo di aver scommesso sul nostro futuro; in
attesa del risultato possiamo ubriacarci al bar in preda alla disperazione, o
possiamo uscire e industriarci affinché la nostra scommessa non rischi di farci
affondare. Questa è la differenza tra aver fiducia o no, tra crederci e
lottare, o esser disillusi e lasciar crollare tutto.
domenica 7 ottobre 2012
ore
12.
Dovrei essere in grado di scrivere cos'è che esattamente
voglio sapere. Ora che ci penso non riesco a formulare domande precise. Ho piuttosto vaghi e confusi pensieri. Vorrei
sapere a cosa pensi quando smetti di parlare e fissi il vuoto, vorrei capire la
chiave del mistero che mi permette di capire ogni tua storia e ogni tua
reazione, tranne quando si tratta di me. Vorrei che la nostra interminabile
partita potesse risolversi. Siamo seduti da mesi allo stesso tavolo, ci curiamo
di tenere le carte al sicuro e di tanto in tanto, con prudenza, ne giochiamo
una. Ci guardiamo e cerchiamo di intuire la prossima mossa, riflettiamo e mentre
siamo sul punto di rischiare tutto, tratteniamo cautamente quella carta. Troppo
rischioso. Io invece vorrei che scoprissimo tutte le carte sul tavolo, fosse
anche un due di picche. Che poi a giocare a carte non sono mai stata così
brava. Vorrei sapere se essere animi affini, scrivere allo stesso modo, credere
alle stesse assurde cose è un privilegio o piuttosto una condanna. Vorrei
capire se esiste davvero quella sensazione di sicurezza totale quando siamo
certi di capirci l’un l’altro o è frutto di auto-suggestioni romantiche. Mi ero
ripromessa di guardare ai fatti, di fidarmi soltanto di ciò che era chiaro e
fissato e invece mi ritrovo qui a tessere illusioni su impressioni e ancora ad
accenni e sensazioni. D’altra parte si possono rinnegare persone e situazioni,
ma è dura reprimere la propria natura. Siamo due rari ottimisti, cerchiamo
l’amore vero per cui valga la pena rinunciare a tutto il resto, confidiamo nel
fatto che esista e cerchiamo di rendere amore anche ciò che non lo è. Ed ecco
che indossi i comodi panni di una scelta sicura, mentre io rivivo il fantasma
di dubbi e incertezze. Non tollero le situazioni in sospeso; inciampo spesso ed
ho un pessimo equilibrio sulla terra ferma. Immagina quanto sia terribile per
me restare in bilico su questo filo sottile. Vorrei stabilire dov'è che finisce
il gioco e dove comincia qualcosa in più. Forse vorrei soltanto sapere se
questa partita la sto portando avanti da sola o se ancora ci sei di fronte a me
per giocare la tua carta . . .
ore 3.
Avevo tanto voglia di vedere la tua carta. Eccola lì, uno
sgargiante asso di cuori per quella ragazza che all'improvviso mi sembra così
vera. E’ tutto il resto che non mi sembra più vero.
domenica 23 settembre 2012
Nazione e informazione
L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. Le
sacrosante parole dell’articolo uno di una Costituzione che paradossalmente
risveglia moti patriottici e sopiti istinti nazionalistici. E siccome
l’avveniristica teoria del vecchio Montesquieu sulla separazione dei poteri è
costantemente ribadita e strenuamente difesa, risulta piuttosto singolare
notare come il quarto potere risulti non solo imbavagliato, ma anche oppresso e
sfruttato. Altro che Terzo Stato. La vitale necessità dell’informazione, che
per una nazione è linfa vitale, sembra valere meno di tre euro a chi le notizie
le cerca, le indaga e le racconta. Il lavoro del giornalista diviene
collaborazione a titolo gratuito in un’Italia in crisi totale in cui anche
nobili ideali di libertà di espressione e meritocrazia per una professione
tanto complessa sono in recessione. E mentre ci si indigna con una società
indifferente,si rivendicano a gran voce diritti negati, il titolo di giornalista
diviene sinonimo di precario frustrato. I problemi sono molteplici, a partire
dal convulso accesso alla professione per “terminare” con l’agognante ricerca
di un’opportunità di lavoro che non sia sfruttamento schiavista da far
rabbrividire i sudisti del ‘700. Il mondo mediatico che sforna a ritmi impressionanti
notizie e bufale, rincorre affannosamente la modernità lasciando nell’incuria
totale una classe di lavoratori che crede innanzitutto nel potere della
notizia. In una manifestazione in cui
giovani speranzosi incassano il duro colpo di aver scelto una strada complessa,
in cui si scontrano ingenui sogni di ventenni e le acri parole dell’esperienza,
la summa morale sembra essere un invito alla più strenua determinazione. E
poiché qualcuno ha detto che fare il giornalista è sempre meglio che lavorare,
mi delego la licenza poetica (con tutto l’ossequio per la veneranda
costituzione) di dire che “La Repubblica Italiana è fondata sul lavoro, chi ne
racconta le storie svolge un lavoro.”
Una sopravvissuta al Festival del Giornalismo Giovane
mercoledì 12 settembre 2012
Amore e caffè
In una calda mattinata delle vacanze estive mi ritrovai a
pensare alle relazioni.A
quelle storie d’amore infinite che sembrano perfette e che nascondono scheletri
nell'armadio. A quelle storie che non riescono a trovare una degna fine e
tornano sempre a riscrivere gli stessi capitoli, chissà se per troppo amore o
stanca abitudine. Ripensai alle storie consumate sotto la luna e trascinate
notte dopo notte per anni interi; a quegli amori impossibili che sfidano ogni
logica e realtà e mi resi improvvisamente conto che c’era una spiegazione
all'assurda catena che lega amore e dolore. Il vero amore dura il tempo di uno
sguardo. L’attimo in cui due paia di occhi si cercano e si dicono qualcosa.
Tutto il resto è solo speranza disattesa,illusione, passione e incomprensione. Allora
perché non ci accontentiamo degli sguardi, così sinceri e diretti? Perché
cerchiamo sempre parole che possono essere bugiarde, mani che possono essere
egoiste, momenti che, si sa, andranno presto via? La verità è che per quanto
possa essere vero uno sguardo non riempie che un secondo, il pensiero o il
ricordo di un amore invece colma intere giornate. L’amore è come il caffè: si
sa che quello amaro è più autentico, ma lo zuccheriamo a volontà finché non è
di nostro gradimento. E una volta finito, c’è chi con il cucchiaino raccoglie
lo zucchero sul fondo!
Non scrivevo da un po’ e confesso che avere un foglio bianco
dinanzi agli occhi fa paura. Fa paura come tutto ciò che ancora non
conosciamo,che è vuoto ed attende di essere colmato. In fondo è l’ignoto che
genera ansia, l’attimo prima che accada qualcosa, l’istante che precede una
decisione. Dopo quell'attimo, è tutto stabilito e scontiamo le conseguenze di
un briciolo di coraggio o di un mare di viltà. E’ un punto oscuro. Alla base di
ogni aspetto della vita esiste un punto oscuro; l’estrema incertezza
dell’azione, il terrore cieco di una scelta, la paura di vivere l’amore.
L’instabilità sembra sfidarci
continuamente, e ci affanniamo per trovare un posto che crediamo stabile, un
ruolo che vogliamo fisso, illudendoci che possa esserci qualcosa di fermo in
una realtà che ruota ogni giorno. L’unica sicurezza che ostentiamo orgogliosi è
il nostro ego, i difetti divengono bandiera e il carattere uno scudo di difesa.
Ma per quanto si costruiscano solide dimore ed efficaci messe in scena, il
bisogno di certezze ci ossessiona fino a soffocarci. Il tempo,foriero di buoni
consigli, mi ha insegnato a credere alle boccate d’aria fresca, alle ventate
gelide e al tremendo scirocco piuttosto che all'aria stantia di abitudini e
remore. Ho imparato che la dignità non va mai dimenticata, e che l’orgoglio è
solo una scusante per la villania; che l’insicurezza è l’impalcatura del
coraggio e non ha senso celarla. Ho imparato che per conoscere davvero una
persona bisogna per un attimo dimenticarsi di sé , che tanto ci si sopporta per
una vita intera. Ho capito che una nuova era è l’occasione per rivoluzionare
tutto e rimanere fedele a tutto. Ho capito come un foglio bianco può in un
attimo riempirsi di deliranti parole e che il silenzio può non essere
assordante se ci si parla su. . .
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